aestra di verismo aneddotico e cronachistico, Matilde Serao (1856–1927) mette in scena, nella sua novella Telegrafi dello stato (sezione femminile), un episodio a prima vista minore, ma che rivela un intero mondo sociale. Alla vigilia delle elezioni politiche, il direttore degli uffici telegrafici invita le ausiliarie a firmare per prestare servizio straordinario. L'annuncio viene presentato come una libera scelta: «che tutte quelle che volessero dare questa prova di amore al lavoro, si firmassero sotto quella carta». In realtà, dietro l'apparente volontarietà, pesa la minaccia implicita di un sistema che può revocare il loro incarico «da un momento all'altro». ✦
🔎 Il primo effetto è la protesta. Le giovani donne, istruite e diplomate, ma pagate «tre miserabili franchi al giorno, scemati dalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia», si ribellano in casa e per strada, rievocando torti e umiliazioni: «tutti i piccoli torti, tutte le piccole ingiustizie, tutte le piccole sofferenze, prendevano voce». È il momento della coscienza critica, che anticipa temi del femminismo novecentesco: precarietà, disparità salariale, assenza di riconoscimento giuridico.
🔎 La ribellione è quasi unanime: non vogliono "farsi bestie da soma" per uno Stato che le sottopaga. E poi: non hanno prospettive, non hanno diritto alla pensione, a quarant'anni sarebbero comunque licenziate. È l'istantanea di una condizione di lavoro femminile senza garanzie e senza futuro.
In casa di Caterina Borrelli discutevano Annina Pescara, Adelina Markò, Maria Morra, Sofia Magliano; in casa di Olimpia Faraone complottavano Peppina Sanna, Peppina De Notaris, Ida Torelli. Le amiche si davano convegno, per mettersi d'accordo. Si litigava dapertutto, fra quelle feroci e quelle miti: fra le ribelli aggressive che consigliavano di non andarci punto in ufficio, per lasciare i superiori nell'imbarazzo, e le ribelli passive che intendevano solo prestare il servizio ordinario. I parenti, i fidanzati, gli amici s'interessavano a quella grande questione, parteggiavano chi per una ribellione intiera, chi per un contegno indifferente, nessuno consigliava il servizio straordinario. Le ausiliarie si sentivano pregate dalla direzione, si sentivano le più forti: volevano mostrare di aver carattere.
🔎 Eppure, quando giunge il momento della firma, la scena si capovolge: una dopo l'altra, le ausiliarie firmano, offrendo più ore di lavoro di quelle richieste. Qualcuna scrive che lavorerà anche per la sorella malata, altre si impegnano fino a mezzanotte. L'ultima, Caterina Borrelli – il personaggio in cui la scrittrice si riconosceva – dichiara semplicemente: «sono a disposizione della direzione». L'atto di dedizione non è semplice obbedienza, ma volontà di mostrare forza e affidabilità. È qui che si manifesta, in forma paradossale, la vera ribellione: non negarsi, ma dimostrare di valere più di quanto il sistema sia disposto a riconoscere.
📌 L'autrice è molto esplicita: nel fermento che segue la lettura dell'editto, i parenti, i fidanzati, gli amici partecipano alla discussione e sono tutti concordi su un fatto: «nessuno consigliava il servizio straordinario». Si trattava solo di decidere se opporsi con fermezza (non presentandosi in ufficio) o con indifferenza (limitandosi all'orario ordinario).
Eppure le ausiliarie, giunte al momento della firma, scelgono tutt'altro: non obbediscono né ai parenti né alla voce della protesta, ma a un convincimento personale e professionale. La Serao lo definisce "fenomeno psicologico", ma a ben vedere è anche affermazione di autonomia. In un contesto in cui la donna è spesso considerata dipendente dal giudizio maschile – del padre, del fratello, del fidanzato – queste giovani decidono da sole.
Il paradosso è che proprio accettando il sacrificio, contro ogni consiglio, mostrano di avere testa e carattere. Non agiscono per docilità, ma per una scelta consapevole: dimostrare che, quando il Paese ne ha bisogno, esse sono all'altezza. È un piccolo ma eloquente atto di emancipazione: la capacità di decidere in autonomia, anche controcorrente.
🔎 L'8 aprile, giorno delle elezioni, diventa il banco di prova. Dapprima giungono i telegrammi dei candidati, «umili, ardenti, pieni di promesse disperate»; poi la circolare ministeriale cifrata, «quattrocentosettantadue gruppi di numeri», con il rischio che un solo errore costi sei lire di multa. Ma è a mezzogiorno che esplode «l'accesso di febbre telegrafica»: dai comuni, dalle prefetture, dai giornali, da ogni parte del regno arrivano dispacci con risultati, commenti, ordini, congratulazioni e proteste.
Che giornata fu quella di domenica, otto aprile! Alla mattina piovvero, come fitta gragnuola, telegrammi di candidati ai grandi elettori, ai sindaci, ai segretari comunali, raccomandandosi: le ultime, ferventi, pie raccomandazioni: – telegrammi umili, ardenti, pieni di concessioni precipitose e di promesse disperate. Poi una circolare politica, del Ministero dell'interno, l'ultima, a tutti i prefetti e sottoprefetti del regno, in cifra, quattrocentosettantadue gruppi di numeri, una fatica immensa, con la paura continua di un errore di cifra che avrebbe guastato il senso del dispaccio: e per ogni cifra sbagliata, l'impiegato paga sei lire di multa.🔎 Il telegrafo diventa la rete nervosa del Paese in movimento: «mentre se ne trasmetteva uno, ne arrivavano cinque da trasmettere; mentre si finiva di trasmettere una serie di dieci, ne restavan fermi cinquantadue». È qui che si misura il ruolo delle telegrafiste: esse non sono più un'appendice, ma il fulcro stesso della comunicazione politica.
Ma l'accesso di febbre telegrafica fu a mezzogiorno. Da tutti i comunelli, da tutti i grossi comuni, da tutti i capoluoghi, da tutte le sottoprefetture e prefetture, arrivavano i risultati delle frazioni, al ministro, alla Stefani*, ai giornali, ai candidati, agli amici dei candidati, ai capopartiti, alle associazioni politiche: e subito dopo, telegrammi privati di commenti, di sfiducia, d'incoraggiamento, di speranze moribonde, di trionfo, di congratulazione, di aspettazione, di bestemmie, di amarezza, di scetticismo. Alle tre del pomeriggio l'accesso febbrile divenne furioso. Nella sezione maschile erano attivati quattro fili con Roma, due più dell'ordinario, e il ritardo era di tre ore; con Firenze, con Milano, con Torino, vi era un ingombro tale di dispacci, che si contavano a serie di dieci. 🔎 La Serao è attenta a sottolineare la perizia delle sue colleghe. Le diverse macchine – «Morse, Siemens, Hughes, doppia Hughes, Steele» – sono tutte in funzione, e le donne vi si applicano con destrezza. Adelina Markò lavora alla Hughes «con una lestezza di dita di pianista emerita», dando colpi di piede per azionare il congegno, le maniche rimboccate come un'operaia.
Anche nelle difficoltà più minute, le ausiliarie si distinguono: Peppina De Notaris riesce a comprendere un corrispondente impacciato, «a intuire più che a leggere»; Clemenza Achard affronta con pazienza angelica la confusione di sette piccoli uffici che reclamano precedenza. La loro competenza non è secondaria: è il cardine che garantisce la regolarità del flusso nazionale delle comunicazioni.
Tutte le macchine, Morse, Siemens, Hughes, doppia Hughes, Steele, erano in movimento: i due capoturni erano presenti, andando e venendo, come sonnambuli, col sigaro spento, un fascio di telegrammi in mano. La porta di comunicazione con la sezione femminile era semiaperta, caso nuovissimo, ma nessuno si voltava. Nella sezione femminile erano presenti tutte le ausiliarie, ognuna a una macchina; la direttrice andava e veniva. La vice-direttrice, piccolina, coi capelli corti, una testolina simpatica di garzoncello svelto, correva da una macchina all'altra, riordinando dispacci, regolando i sistemi di orologeria, dando l'inchiostro, lesta come uno scoiattolo, le mani pronte, l'occhio vivo, la parola alta e breve. I telegrammi nascevano, sgorgavano, spuntavano da tutte le linee; su tutte il ritardo era di tre ore, i telegrammi da trasmettere si ammonticchiavano, formavano fasci, manipoli, cumuli; mentre se ne trasmetteva uno, ne arrivavano cinque da trasmettere, mentre si finiva di trasmettere una serie di dieci, ne restavan fermi cinquantadue.
🔎 I telegrammi piovono «come fitta gragnuola», si attivano fili supplementari con Roma, Milano, Torino. La sezione femminile, mai prima incaricata di comunicare con la capitale, regge l'urto.
Le ausiliarie erano prese dalla febbre, che ogni ora saliva di grado. Alta, seduta sul seggiolone, col vestito coperto da un grande grembiale nero, Adelina Markò lavorava alacremente alla macchina Hughes, con Genova, trasmettendo con una lestezza di dita di pianista emerita, con uno scricchiolio rapidissimo di tutto quell'ingranaggio, dando la corda al congegno con certi colpi potenti del piede diritto, i capelli rialzati sulla testa per non aver fastidio sulla nuca, le maniche rimboccate per poter trasmettere più facilmente: accanto a lei, Giulietta Scarano aveva appena appena il tempo di registrare i dispacci. Maria Morra sedeva sull'alto seggiolone, anche lei, alla linea di Bari: un ciuffo di capelli le scendeva sopra un occhio, aveva una macchia d'inchiostro azzurro sul mento, il goletto sbottonato perchè si sentiva soffocare, due macchie rosse sui pomelli: ogni tanto, Emma Torelli le dava il cambio, per farla riposare un po', registrando i dispacci, classificandoli, facendo tutto il servizio di segreteria. [...]
🔎 Caterina Borrelli riceve i dispacci da Roma sulla Morse con una rapidità sorprendente, «indovinando le parole dalla prima sillaba, finendo di scrivere il telegramma prima che il corrispondente finisse di trasmetterlo»: un'abilità che va oltre la semplice routine, quasi un'intuizione istintiva. Intorno a lei, colleghe stremate continuano a lavorare: «con gli occhi lustri, le trecce disfatte, la mano nervosa che forte stringeva il tasto».
[...] La moltiplicazione dei telegrammi era miracolosa, tutti telegrafavano, ora. Si era dovuto attivare un quinto filo con Roma e – onore insperato – lo aveva la sezione femminile, che sin'allora non aveva mai corrisposto con la capitale. A quel filo, macchina Morse, si riceveva soltanto: vi era stata messa quella che riceveva meglio, la Borrelli. Con le lenti fortemente piantate sul naso, una gamba incavalcata sull'altra, come un uomo, con un movimento nervoso della bocca, senza mai levar la testa, senza muoversi, senza voltarsi, ella riceveva sempre, indovinando le parole dalla prima sillaba, finendo di scrivere il telegramma prima che il corrispondente finisse di trasmetterlo. [...]🔎 È la solidarietà professionale che permette di reggere uno sforzo immane, otto, dieci, dodici ore senza sosta. La pagina della Serao restituisce così un doppio ritratto: da un lato, la denuncia di un sistema ingiusto che sfrutta il lavoro femminile senza riconoscerlo; dall'altro, la celebrazione di una forza collettiva, nata dall'intelligenza, dalla competenza e dalla disciplina.
[...] – Svelte, signorine, svelte, – strillava la vice direttrice. – Abbiamo un grave ritardo, – mormorava la direttrice, girando attorno ai tavoli. Anche il direttore, andava e veniva, ma muto, serio, senza fare osservazioni, passeggiando come un leone nella gabbia. Non diceva niente, vedeva tutto: la faccia pallida di Annina Pescara che sedeva da dieci ore alla linea di Reggio e crollava ogni tanto il capo, come se non potesse reggerlo; la pazienza angelica di Clemenza Achard, che combatteva con sette piccoli uffici sulla sua linea, che tutti avevano telegrammi e tutti volevano avere la precedenza; il tormento di Ida Torelli che si dannava alla linea Napoli-Ancona-Bologna, ella aveva sessanta dispacci, Ancona e Bologna perdevano il tempo a litigare fra loro; la perizia di Peppina De Notaris che arrivava a intuire, più che a leggere, la trasmissione del corrispondente di Catanzaro, una bestia che non sapeva trasmettere.🔎 Forse il dato più sorprendente, e più moderno, è la capacità di fare gruppo. Nel pieno della pressione, cadono gelosie e rivalità: «non vi erano più distinzioni di turno, di antipatie, di valori: si assistevano fraternamente». Quelle meno adatte a ricevere e trasmettere si dedicano al lavoro accessorio – contare parole, registrare dispacci, mettere rotoli di carta – pur di sostenere le altre.
Egli dava le volte come il leone, ma non diceva niente: le ausiliarie erano tutte svelte, tutte intelligenti, quel giorno: quell'ambiente, quell'eccitamento avevano sviluppato in loro qualità nuovissime. Si soccorrevano, con amore, scambievolmente, d'inchiostro, di penne, di carta; le più disadatte alla corrispondenza, registravano, mettevano l'ora ai dispacci, contavano le parole, mettevano i rotoli di carta, raccoglievano i telegrammi trasmessi. Non vi erano più distinzioni di turno, di antipatie, di valori: si assistevano fraternamente, arse dal desiderio di far bene.
🔎 Il racconto, che affonda nella memoria biografica della scrittrice, è dunque più di una cronaca di lavoro: è la testimonianza di una professionalità femminile misconosciuta, capace di imporsi in silenzio. Senza clamori, senza gesti eclatanti, le telegrafiste mostrano che, messe alla prova, sanno sostenere un impegno maggiore, con una disciplina e una serietà che i colleghi maschi spesso non posseggono.
Alle otto della sera di quella domenica, le ausiliarie telegrafiche, tutte presenti, senza aver fatto colazione, senza aver pranzato, seguitavano a trasmettere, a Hughes, a Morse, seguitavano a ricevere, fra un fascio di telegrammi già dati e un fascio da darsi, con gli occhi lustri, le trecce disfatte, la mano nervosa che forte stringeva il tasto, e la voce velata che chiedeva, ogni tanto – Vi è ingombro, ancora?
🔎 Telegrafi dello stato (sezione femminile) è un documento di storia sociale. Matilde Serao, che quelle stanze le aveva vissute, mostra come le donne, pur oppresse da salari miseri e da un futuro incerto, sappiano trasformare un dovere in una prova di valore. Nel giorno in cui l'Italia sperimenta la sua democrazia elettorale, sono le telegrafiste a garantire il funzionamento della macchina politica. E lo fanno con una professionalità che non è solo tecnica, ma anche morale: un insegnamento che conserva intatta la sua forza.
💬 Matilde Serao ha molto osservato, nel corso della sua fanciullezza e adolescenza, le famiglie della piccola
borghesia napoletana, dei bottegai, dei magri impiegati, degli avvocatucci, dei professorucci, dei pensionati, della miseria decente che sbarca a stento il lunario.
[...]
Figliuola di giornalista, ha partecipato fin da giovanissima al giornalismo, cosí a quello alquanto angusto e provinciale di Napoli tra il 1870 e il 1880, come all'altro, piú largo e vario, della capitale. [...]
Tutte le varie impressioni di queste prime esperienze furono accolte ed elaborate da una fantasia
mirabilmente limpida e viva, che sembrava vedere ogni oggetto, ogni atto, ogni movimento in piena luce, nitido, contornato, spiccato. La pronta percezione della Serao notava figure, caratteri, sentimenti, costumi, atteggiamenti delle varie società e situazioni per le quali passava; e la tenace memoria li serbava in tutta la loro freschezza, immediatezza e precisione. E non restavano solamente nella memoria, ma erano accolti e avvivati nel suo cuore e nella sua intelligenza: un cuore ricco di tenerezza e d'indulgenza, di pietà per le umili trepidazioni e accoramenti, di simpatia per la bontà e pei sacrifizî consumati nel silenzio e nell'ombra; un'intelligenza penetrante della passionalità erotica femminile, quale solo una donna può possedere.
(Benedetto Croce)