I sonetti capitali di Fazio degli Uberti
l ciclo dei Peccati mortali di Fazio degli Uberti (Pisa ca. 1301 – Verona ca. 1367), discendente del celebre Farinata cantato da Dante (Inferno X), rappresenta un raro esempio di poesia didattico-morale capace di unire vigore letterario e densità etica.
Nella corona di sette sonetti dedicati ai rispettivi vizi capitali – Superbia, Invidia, Avarizia, Ira, Gola, Lussuria e Accidia – di seguito singolarmente parafrasati e debitamente commentati, l'autore dà voce direttamente al vizio, secondo un dispositivo di personificazione drammatica: ogni colpa prende la parola in prima persona, presentandosi al lettore senza mediazioni, in una sorta di sfilata confessionale infernale.
L'impianto è quasi teatrale, la lingua intensa e scabra; il modello più prossimo è quello della letteratura penitenziale, ma il risultato va oltre la semplice parafrasi teologica: ogni vizio diventa un personaggio parlante, che si delinea attraverso immagini, gesti, parole, memoria e confessione. Ne nasce un microcosmo visionario e morale, tanto più efficace quanto più è ridotto all'essenziale.
L'ordine dei sonetti, coerente con quello scelto dal Renier (1883), segue una logica di progressiva degradazione spirituale: dalla hybris verticale della Superbia alla dissoluzione assoluta dell'Accidia, ciascun vizio corrisponde alla perversione di una virtù fondamentale:
L'efficacia del ciclo non risiede nella condanna esterna, ma nella auto-rivelazione implacabile che ciascun vizio compie di sé. La colpa parla con un linguaggio che è insieme teatrale e ossessivo, falsamente seduttivo o ferocemente disperato.
Ogni sonetto ha struttura regolare, ma è internamente agitato da una sintassi paratattica, interrotta, spesso febbrile. Il lessico è diretto, radicato nella lingua predicatoria e nelle immagini concrete del corpo, della voce, dell'azione.
L'anadiplosi del "Io son…" o "I' so'…" – sempre in apertura e spesso reiterata – costruisce una sequenza di autoidentificazioni tragiche, come se ciascun vizio fosse un'entità consapevole e incatenata al proprio destino.
Le metafore sono corporee o bestiali: il porco, la lupa, la ranocchia, la pece, il fuoco. Ma non mancano immagini alte: la "luce" della giustizia (Malachia 4,2), la guerra di Troia, il frutto proibito di Adamo ed Eva, la blasfemia contro i sacramenti.
L'autore fonde il registro allegorico con quello epico, biblico, apocalittico.
L'ultimo verso di ciascun sonetto è spesso il più memorabile: una rovina, una bestemmia, un'implosione o un grido muto.
Il ciclo si inserisce nella tradizione medievale della morale allegorica, tra i sermonari, le somme dei vizi e delle virtù, il De vitiis et virtutibus, e le raccolte di exempla penitenziali. Ma Fazio degli Uberti si distingue per la sua potenza drammatica: ogni vizio è una maschera parlante, una voce incarnata, che non viene descritta ma si descrive.
A differenza della struttura escatologica dantesca, in cui i peccati sono collocati in ordine teologico in una cosmologia salvifica, l'autore mette tutti i vizi sul palcoscenico della vita, vivi, parlanti, senza inferno e senza purgatorio: è la terra il loro teatro, e il corpo il loro luogo di azione.
Questa è una moralità incarnata: non trattato, ma monologo teatrale, poema penitenziale senza predica.
Il ciclo dei Peccati mortali è una messa in scena morale perfettamente trecentesca, specchio di un'epoca in bilico tra fede e disperazione, tra fervore cittadino e crisi spirituale.
È poesia che non catechizza, ma accusa. Che non assolve, ma denuncia. E lo fa attraverso la voce dell'imputato stesso, senza l'intervento di Dio, né del giudice, né del predicatore.
L'ultimo verso del ciclo è memorabile e abissale:
"I' nacqui al mondo sol per darm' ai vermi".
È la chiusura più buia che un poeta morale possa concepire: non la colpa che cerca perdono, ma il peccato che si è fatto destino. E proprio in questo risiede la sua forza più inquietante e più vera.
✦ La lezione dei sette sonetti, di seguito integralmente riportata, e della quale si danno parafrasi, commento e note originali, è tratta da Liriche edite ed inedite di Fazio degli Uberti, a cura di Rodolfo Renier (Firenze, Sansoni, 1883).
Fazio degli Uberti
I PECCATI MORTALI
A cura di Rodolfo Renier
(Testo integrale)
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I. SUPERBIA
I' son la mala pianta di superba,
che 'ngenera' di ciascun vizio el seme;
e quel cotal non ama dio nè teme,
che se notrica de questa mia erba.
I' son ingrata arrogante et acerba,
per cui 'l mondo tucto piange e[t] geme;
i' son nelle gran cos[s]e e nell'estreme
colei che compa[n]gnia rompe e disnerba.
I' son un monte tra 'l ciel e [l]la terra,
che chiude agli occhi vostri quella luce,
che 'l sol della giustizia in voi conduce.
Col summo bene sempre vivo in guerra;
vero che, quando regno in maggior pompe,
giù me trabocca e tutta me dirompe.
Io sono la pianta velenosa della Superbia,
generatrice di ogni altro vizio (sono origine di tutti i peccati);
e colui che si nutre di questa mia erba (che mi pratica)
non ama Dio, né lo teme.
Io sono ingrata, proterva e amara, e a causa mia il mondo intero piange e soffre; sia nelle cose grandi che in quelle di poco conto, sono colei che rompe le comunità e le sradica (distrugge la coesione sociale).
Io sono come un monte innalzato tra cielo e terra, che vi impedisce di vedere quella luce che il sole della giustizia (Dio) vuole far brillare nei vostri cuori.
Vivo costantemente in conflitto con il Bene supremo (Dio stesso); che però, proprio quando regno con maggior fasto e splendore, mi scaraventa all'inferno e completamente mi distrugge.
Il sonetto si apre con un'autoidentificazione perentoria: la Superbia si presenta come una "mala pianta", formula dalla forte risonanza biblica e morale. L'immagine della pianta allude a una radice generatrice del male, coerente con la dottrina patristica e scolastica che definisce la Superbia radix omnium malorum, cioè la causa primigenia da cui discendono tutti gli altri peccati capitali.
Fazio adotta la costruzione insistita del "I' son...", reiterata quattro volte, per rafforzare il tono ossessivo e marziale della personificazione. La Superbia si dichiara "ingrata, arrogante et acerba": aggettivi che evidenziano la sua asocialità, durezza e mancanza di gratitudine verso Dio e verso gli altri. È causa di lutto universale – "per cui 'l mondo tucto piange et geme" – e rompe ogni vincolo sociale e affettivo: "compagnia rompe e disnerba". Il verbo "disnerbare" è particolarmente potente: evoca non solo la distruzione, ma l'estirpazione radicale della comunione.
La prima terzina introduce una delle immagini più potenti dell'intero ciclo: la Superbia come monte tra il cielo e la terra, ostacolo tra l'uomo e la luce divina. La "luce" è quella del "sol della giustizia", chiaro riferimento a Malachia 4,2, dove Cristo è detto "sole della giustizia" (sol iustitiae). La Superbia, elevandosi, oscura e acceca, impedisce la visione salvifica.
Nelle seconda terzina, si esplicita il conflitto ontologico con Dio: "col summo bene sempre vivo in guerra". Ma la chiusa mostra che l'apice della Superbia coincide con la sua rovina: "quando regno in maggior pompe, / giù me trabocca e tutta me dirompe". Il lessico è vivido, quasi teatrale: "traboccare" e "dirompere" suggeriscono una caduta catastrofica, una distruzione totale, che è al tempo stesso morale e simbolica. È la perfetta illustrazione del topos medievale della caduta dell'orgoglioso, su cui tanto insistono i sermoni penitenziali e i trattati morali trecenteschi.
🔍 Note testuali
– "Pianta": figura tradizionale per designare il male che si diffonde; già in Dante (Inferno XXVII,121: "pianta ch'amarissima surge da radice").
– "Rompe e disnerba": spezza legami e sradica; verbo raro, "disnerbare", con forza e durezza arcaica.
– "Sol della giustizia": epiteto cristologico (Malachia 4:2: "orietur vobis sol iustitiae"), usato da Dante in Purgatorio XV,75.
– "Pompe": nel senso di fasti mondani e vanagloria; anche qui l'eco è dantesca (Purgatorio X,122: "le pompe mondane").
II. INVIDIA
Et io invidia, quando altrui riguardo
che se rallegri, [de]vengo umbrosa e trista;
ne' membri, nel parlar e nella vista
discovro il fuoco, dentro al quale i' ardo.
Tra fratello e fratel[lo] non ho riguardo;
Cain sa el bene che per me s'acquista:
morir fe' Cristo e cacciar el salmista
dinanzi da Saul co' lo mio dardo.
I' consumo quel core ove io albergo,
e posso dir[e] che sia discordia e morte
de città, de reami e d'o[n]gni corte.
Ai colpi miei non può valere usbergo,
per che co' [lgli] tradimenti gli disferro;
i' dico co' la lingua e non col ferro.
E io, l'Invidia, quando guardo qualcuno
che si rallegra (che gioisce), divento sospettosa e cattiva;
nel corpo, nelle parole e nello sguardo
rivelo il fuoco interiore che mi consuma.
Non risparmio neppure i fratelli; Caino sa il bene che si ottiene mercé mia: fu per mia colpa che Cristo morì, e che il salmista (Davide) fu cacciato da Saul, colpito dalla mia lancia (dalla sua gelosia).
Consumo il cuore in cui prendo dimora, e posso dire di esser causa di discordia e decadenza per città, regni e corti.
Nessuna corazza può reggere ai miei colpi, perché li sferro con l'inganno (di nascosto); io colpisco con la lingua, non con la spada.
Dopo l'elevazione titanica della Superbia, l'Invidia prende parola con una voce cupamente interiore, quasi corrosiva, e si presenta come fuoco divorante e veleno dell'anima. Anche qui domina la personificazione, con una prima persona confessante e deformante, ma con un tono più viscerale, più umano, più spietatamente interno.
La prima quartina esprime con limpidezza la struttura affettiva del vizio: l'Invidia si rattrista all'altrui gioia. L'aggettivo "umbrosa" è particolarmente felice: indica insieme oscurità, introversione, offuscamento. L'opposizione tra la luce della gioia e la cupa tristezza dell'invidioso è radicale. Il "fuoco" che arde dentro e si manifesta nel corpo, nella parola, nello sguardo, allude a una corruzione integrale della persona, visibile nei suoi gesti, nella sua voce, nella sua fisionomia – secondo una concezione medievale e patristica della visibilità del peccato.
La seconda quartina introduce alcuni riferimenti biblici fortissimi:
Le terzine esprimono la dinamica distruttiva dell'Invidia: essa divora il cuore che la ospita, ma non si limita a un danno privato. È forza sociale disgregatrice, causa di discordia e decadenza di città, regni, corti. Agisce dall'interno, come un male insidioso.
Il finale è straordinariamente incisivo:
"i' dico co' la lingua e non col ferro"
è un verso che concentra tutta la potenza distruttiva della parola maligna, più temibile del colpo d'arma. Qui Fazio coglie con grande acutezza teologica il potere della maldicenza, dell'insinuazione, dell'odio sussurrato. È una forma di aggressione morale e spirituale, affine a quanto dice Giacomo nella sua lettera (3,6): "la lingua è un fuoco", un intero mondo di malvagità.
🔍 Note testuali
– "Umbrosa e trista": vocaboli che richiamano oscurità, malinconia, corrosione. La tonalità visiva è importante: l'invidia è cupa, grigia, in ombra.
– "Discovro": da intendere come ‘rivelo', ‘mostro'. L'uso del fuoco come metafora dell'invidia è antico (Sapienza 2,24).
– "Morir fe' Cristo": riferimento diretto all'accusa rivolta ai farisei in Marco 15,10.
– "Salmista": Davide, autore dei Salmi, ma anche protagonista del conflitto con Saul.
– "Usbergo": ad indicare una protezione, una corazza. Qui è la vanità di ogni difesa materiale contro l'invidia verbale.
III. AVARIZIA
I' son la magra lupa d'avarizia,
de cui mai l'appetito non è sazio,
e con più ho di vita lungo spazio
più moltiplica in me questa tristizia.
Io vivo con paura e con malizia,
limosina non fo, nè dio rengrazio;
deh odi s' i' me vendo e s' i' me strazio
ch' io mor[o] di fame ed ho dell' or divizia.
Io non bramo parenti nè memoria,
nè credo [che] sia dilecto nè più vivere,
che l'imbors[i]ar, e far ragion, e scrivere.
Lo 'nferno è monimento de mia storia,
e questo mondo è 'l ben in cui m' annidolo:
lo fiorino è lo dio ch' i' ho per idolo.
Io sono la lupa magra dell'Avarizia (immagine dantesca e simbolica),
il cui desiderio non è mai soddisfatto,
e quanto più a lungo vivo
più cresce in me questa tristezza (la mia brama).
Vivo diffidando degli altri, con animo maligno, non dono mai nulla in elemosina, né ringrazio Dio (per ciò che possiedo); oh, ascolta come io mi vendo e mi torturo (mi sacrifico e mi corrodo) poiché muoio di fame pur avendo oro in abbondanza.
Io non desidero antenati né discendenti, né credo esista piacere o vita migliore dell'intascar denaro, fare di conto e computar guadagni.
L'inferno è il solo ricordo della mia esistenza, ed è in questo mondo che trovo rifugio: il denaro è il dio che adoro come un idolo (il mio unico valore).
Con questo sonetto, l'Avarizia si manifesta nella sua forma più feroce e spersonalizzante: quella della "magra lupa", immagine che evoca la lupa dantesca dell'Inferno (I,49-51), simbolo della bramosia senza misura. La fame dell'Avarizia è tanto più tragica in quanto non conduce mai a sazietà, ma aumenta col tempo: "più ho di vita lungo spazio, più moltiplica in me questa tristizia". Il termine "tristizia", tipico della teologia medievale, indica una tristezza sterile e corrotta, distante dalla compunzione cristiana e più vicina alla desolazione spirituale.
La seconda quartina descrive la vita dell'avaro come esistenza nella paura e nella malizia. È una vita chiusa, priva di slanci: non compie opere buone (lemosina), non riconosce la grazia (non ringrazia Dio). Ma il nucleo tragico è nel paradosso centrale del vizio:
"mor[o] di fame ed ho dell' or divizia".
Muoio di fame benché abbia oro in gran misura: un'immagine emblematica che riassume tutta la follia autodistruttiva dell'Avarizia. Il soggetto si "vende e si strazia": è talmente legato all'oro da infliggersi sofferenza pur di conservarlo. Il verbo "strazio" non è qui semplice metafora, ma indica una lacerazione spirituale e fisica.
La prima terzina rafforza questa immagine di solitudine e alienazione: l'Avarizia non brama né affetti né memoria. Rifiuta la dimensione umana (i parenti), quella storica (la memoria) e anche quella edonistica (il "dilecto"): l'unico scopo è contare, registrare, possedere. I verbi "imborsiar, far ragion, scrivere" evocano la figura del mercante o del notaio, tipica dell'Italia urbana del Trecento, colui che vive solo nel registro contabile.
La chiusa ha un tono escatologico e blasfemo. L'Avarizia riconosce come monumento della sua storia l'inferno: la dannazione non è solo destino, ma memoria costitutiva. E il mondo terreno è il suo unico bene. Il verso finale è terribile nella sua sintesi:
"lo fiorino è lo dio ch' i' ho per idolo".
La moneta – simbolo del potere mercantile fiorentino – prende il posto di Dio. La parola "idolo" è chiave: richiama l'Antico Testamento, dove l'idolatria è il peccato per eccellenza, e gli idoli d'oro e d'argento sono muti, ciechi, sterili. In questa prospettiva, l'Avarizia non è solo peccato privato, ma sovversione dell'ordine spirituale, sacrilegio mascherato da operosità.
🔍 Note testuali
– "Magra lupa": allusione diretta all'Inferno I,49–54. Per Dante, la lupa è simbolo dell'avidità che "di tutte brame sembiava carca".
– "Tristizia": termine raro in italiano moderno, ma presente nel latino dei Padri. Qui indica la cupa tristezza interiore generata dalla brama inappagabile.
– "Me vendo e me strazio": si riferisce alla perdita di sé, al logorarsi interno pur di non perdere il possesso.
– "Monimento": nel senso medievale di ‘memoria', ‘testimonianza lasciata nel mondo'.
– "Idolo": la sostituzione di Dio con l'oro è un tema biblico (Esodo 32, il vitello d'oro).
IV. IRA
Ira son' io sanza ra[s]gion o regola,
sub[b]ita, furibonda e con discordia,
pace, amore, nè misericordia
trovar non può chi con meco se 'mpegola.
Tucta me squarcio com' i' fossi stregol[l]a;
menaccie e grida son le mie esordia;
dov' io albergo non trova concordia
padre con fi[l]glio, quando son in fregol[l]a.
Venen con fuoco o[n]gnior più sento accendere
in nell'animo mio e più mi torbida,
ond' io non posso mai el ver conprendere.
Paura nè lusinghe me rammorbida;
biastemo dio, la fè, battes[si]mo e cresima;
uccido altrui e quando me medesima.
Io sono l'Ira, priva di ragione e di misura,
impulsiva, furente e in paio con la discordia; chi si mischia con me
non trova pace, né amore, né misericordia.
Mi lacero tutta, come se fossi strega posseduta; principio con minacce e grida; dove abito io, non c'è armonia nemmeno tra padre e figlio, quando sono preda della collera.
Più sento veleno e fuoco accendersi nell'animo, e più mi si offusca la mente, così da non riuscire mai a distinguere il vero.
Nulla mi acquieta, né minacce né lusinghe; bestemmio Dio, la fede e i sacramenti; uccido gli altri, e talvolta me stessa.
Il sonetto dedicato all'Ira è tra i più drammatici dell'intero ciclo, sia per la violenza del linguaggio, sia per la rappresentazione psicologica del vizio. L'incipit è secco e assoluto:
"Ira son' io sanza ragion o regola".
Una dichiarazione che nega sin da subito i fondamenti dell'etica cristiana e filosofica medievale: la ragione (logos) e la regola (ordo). L'Ira è caos, cieca reazione, pura forza distruttrice.
I tre aggettivi che seguono – "subita, furibonda e con discordia" – definiscono il carattere del vizio: immediata, violenta, divisiva. Chi "se 'mpegola" con lei, verbo che implica un impigliarsi vischioso, degradante, perde ogni possibilità di pace, amore, misericordia. È un vizio relazionale e devastante: dissolve i legami, contamina ogni contesto.
Nella seconda quartina, l'autore inserisce un'immagine folgorante:
"Tucta me squarcio com' i' fossi stregolla".
Cioè, mi lacero come una donna posseduta o indemoniata (la "stregolla"). La parola ha connotazioni di furore incontrollato, richiama l'isteria nel senso medievale del termine. L'Ira è qui corpo che si lacera, voce che minaccia: il sonetto assume un tono quasi teatrale, "menaccie e grida son le mie esordia".
Segue l'effetto sociale: la frattura anche del vincolo sacro tra padre e figlio, quando l'Ira "è in fregolla", cioè in pieno furore (termine onomatopeico e popolare). L'Ira è dunque anti-comunitaria, anti-familiare, dissolutrice del patto affettivo e civile.
Le terzine si concentrano sul meccanismo psichico e spirituale del vizio.
"Venen con fuoco ongnior più sento accendere".
Il fuoco dell'Ira si ripresenta ciclicamente, più forte ogni volta, turbando l'anima e impedendole di comprendere il vero. È un'immagine che si accorda con la dottrina morale scolastica: l'Ira offusca l'intelletto, e quindi preclude la verità, il discernimento, la salvezza.
Il finale è teologicamente devastante.
"Biastemo dio, la fè, battessimo e cresima".
L'Ira conduce alla blasfemia, al rifiuto dei sacramenti fondamentali. Non è solo disordine morale: è apostasia affettiva, rinnegamento della grazia.
"Uccido altrui e quando me medesima"
è una chiusa perfetta nella sua laconica ferocia: l'Ira è omicida e suicida, capace di annientare non solo l'altro, ma anche se stessa. È forza cieca, è dannazione, è rovina.
🔍 Note testuali
– "Chi con meco se 'mpegola": chi s'impiccia con me, chi si impiastra. Qui 'chi si macchia moralmente', 'chi si immerge nel vizio'.
– "In fregola": dal latino frigola, eccitazione. È lo scatto impulsivo dell'Ira che rompe i legami, anche i più sacri.
– "Biastemo dio…": è formula teologica forte: l'Ira come rifiuto della grazia e dei sacramenti.
– "Me medesima": è qui che si affaccia la possibilità della autodistruzione. L'Ira si configura come suicidio dell'anima e, talvolta, anche del corpo.
V. GOLA
I' son la gol[l]a che consumo tucto
quanto per me o per altrui guada[n]gno:
per o[n]gni altro bisogno me sparagn[i]o,
[solo] per soddisfar a questo [mio] vizio bructo.
Grassa me truovo, col palato asciucto,
con tutto che lo dì e la notte el ba[n]gno:
del corpo fo laveggio, e non ho lagno
se del ciel perdo l'angelico fructo.
Truova chi cerchi ben[e] di ramo in ramo
ch' i' fu[o]i principio al mondo d'o[n]gni male
nel pomo che gustò Eva ed Adamo.
La fine mia, per mio soperchio, è tale,
ch' i' guasto gli occhi e par[a]letica ve[n]gno
e caggio in povertà senza soste[n]gno.
Io sono la Gola, e ingurgito tutto quel che è mio oppure anche di altri: per ogni altra necessità mi trattengo,
pur di soddisfare questo mio turpe vizio.
Mi trovo grassa, ma con il palato secco, benché mangi e beva giorno e notte: fo pentola del ventre (ne faccio recipiente), e non mi dolgo se perdo il premio celeste dell'anima (la salvezza).
Chi ben guarda di cosa in cosa, riconosce che fui l'origine di tutti i mali del mondo, con il frutto mangiato da Eva e Adamo.
La mia fine, a causa del mio eccesso, è questa: procuro la cecità e la paralisi, e cado in miseria senza freno alcuno.
Il sonetto sulla Gola si presenta in apparenza come il più "corporeo" tra quelli del ciclo, ma l'autore lo tratta con una gravità sorprendente, che lo collega direttamente alla colpa originaria e alle sue conseguenze cosmiche.
L'incipit è diretto, privo di abbellimenti:
"I' son la gola che consumo tucto".
La Gola è consumo insaziabile, spreco che si estende anche ai beni altrui. È un vizio egoista, autodistruttivo e antisociale, che rifiuta ogni forma di sobrietà o equilibrio. L'espressione "me sparagno" implica una rinuncia non virtuosa ma strumentale, finalizzata solo a potenziare il piacere goloso.
La seconda quartina introduce un paradosso fisico e morale: la Gola si dichiara grassa e con il palato asciutto. Nonostante mangi e beva senza sosta ("lo dì e la notte el bagno"), resta inappagata. Anche qui, come per l'Avarizia, il desiderio non si placa mai.
"Del corpo fo laveggio" va inteso come riduzione del proprio corpo/ventre a recipiente, a pentola, a lavacro pronto ad accogliere quantità illimitate di alimenti: strumento di passaggio per il vizio.
L'amara rassegnazione – "non ho lagno / se del ciel perdo l'angelico fructo" – svela una tragica indifferenza alla dannazione: la Gola baratta il paradiso per la soddisfazione sensuale.
La prima terzina è di dichiarazione teologica:
"ch' i' fui principio al mondo d'ogni male / nel pomo che gustò Eva ed Adamo".
Qui la Gola rivendica di essere il motore della caduta e, in linea con la lettura patristica della Genesi, il frutto proibito è simbolo della disobbedienza motivata da desiderio e appetito sensuale.
Fazio segue qui una linea morale medievale che identifica nella Gola non solo il desiderio alimentare, ma ogni forma di desiderio disordinato.
La terzina finale è un vero elenco di degradazione fisica e sociale:
L'ultimo verso:
"e caggio in povertà senza sostegno"
è di implacabile concretezza: la Gola conduce alla rovina del corpo, dell'anima e della condizione sociale. Non è un peccato "veniale" o "bonario", ma un vizioso principio di distruzione, che corrompe il dono, nega la gratitudine e spezza la misura.
🔍 Note testuali
– "L'angelico fructo": la beatitudine del Paradiso, persa a causa della Gola.
– "Parletica": paralitica, deformata dal vizio. Tema di forte iconografia medievale (ingrasso → deformità → dannazione).
VI. LUSSURIA
I' son la scellerata de lussuria,
che a legge mai nè a ra[s]gion considero,
e tucto quel[lo] che bramo e che desidero
giusto me pare, e più non guard' ingiuria.
I' son [un] foc[c]o portato pien de furia,
che [l]i Greci e li Troian[i] già mal me videro.
L'anima perdo e 'l corpo mio n'assidero;
io vivo con malie e con a[u]guria.
E bene ch' io dimostro nel principio
un dolce ed un contento desiderio,
pur la mia fine è danno e vituperio.
In costumi col porco participio;
o quanto è da lodar l'omo e la femina,
che fugge l'esca che per me se semina!
Io sono la scellerata (perversa) Lussuria,
che non tiene mai conto della legge né della ragione, e tutto ciò che desidero o bramo
mi pare giusto, e non m'importa che sia oltraggioso.
Sono un fuoco sospinto e furioso, che già Greci e Troiani conobbero nel male (allusione a Elena di Troia).
Condanno l'anima e ammalo il corpo; vivo con inganni e sortilegi.
E per quanto ostenti, all'inizio, un sembiante di piacere e dolcezza, il mio frutto è danno e vergogna.
Nella mia condotta partecipo della natura del porco (sono bestiale); oh, quanto son degni di lode l'uomo e la donna che sfuggono all'esca propagata per tramite mio!
Con la Lussuria, il ciclo dei peccati si addentra in un territorio complesso, in cui la colpa si maschera di piacere e seduzione. Il primo verso è già una condanna morale:
"I' son la scellerata de lussuria".
L'aggettivo "scellerata" conserva qui la forza del latino scelestus, ossia colpevole, delittuosa, empia: non è solo disordinata, ma profondamente sovversiva rispetto all'ordine naturale e divino.
Il nucleo del vizio è ben descritto nei versi seguenti:
"e tucto quello che bramo e che desidero / giusto me pare, e più non guard' ingiuria".
Il desiderio si fa criterio morale assoluto, e questo autoinganno etico è uno dei tratti distintivi della Lussuria nella dottrina medievale. L'essere travolti da ciò che si desidera, al punto da dimenticare la legge e la ragione, rappresenta il completo stravolgimento del libero arbitrio.
La seconda quartina introduce due elementi chiave:
Segue un'autodenuncia doppia:
"L'anima perdo e 'l corpo mio n'assidero".
La Lussuria è peccato mortale e danno fisico: logora lo spirito, ma anche la carne. Il verbo "assidero" ha senso di raffreddare, intorpidire, paralizzare, ammalare, forse con un gioco antifrastico rispetto al fuoco: consumata dal fuoco, la carne diventa gelida, inerte, morta.
Nelle terzine, Fazio disvela la natura ingannevole del vizio:
"E bene ch' io dimostro nel principio / un dolce ed un contento desiderio, / pur la mia fine è danno e vituperio".
Qui si riflette la struttura classica del peccato come apparenza seducente e rovina finale. Lussuria promette dolcezza, ma offre disonore, vergogna, dannazione. L'espressione "danno e vituperio" ha toni biblici e predicatori, e rievoca l'insegnamento morale di mille prediche penitenziali.
Il finale colpisce duramente sul piano simbolico:
"In costumi col porco participio".
Il porco è immagine canonica dell'impurità: qui la Lussuria riconosce la propria animalità, bassezza, degradazione istintiva. Ma l'ultimo distico ribalta improvvisamente la prospettiva:
"o quanto è da lodar l'omo e la femina / che fugge l'esca che per me se semina!"
È l'unico momento del ciclo in cui il vizio riconosce la grandezza morale della virtù opposta. L'uomo e la donna che rifiutano l'esca della lussuria sono degni di lode, capaci di vedere oltre l'inganno. L'"esca" è metafora raffinata: qualcosa che attira con dolcezza e poi intrappola con violenza.
Questo finale è prezioso: introduce una voce etica positiva dentro il lamento del vizio. È come se l'autore, attraverso la voce stessa del peccato, rendesse testimonianza della libertà umana e del valore della castità, intesa come lucidità, forza e distacco dal desiderio illusorio.
📌 La logica è dantesca, ma l'intonazione più moraleggiante avvicina Fazio a un predicatore penitente. La struttura è coerente: desiderio → eccesso → rovina → condanna.
VII. ACCIDIA
Et io accidia so', tanto da nulla,
che grama son di qualunque m'adocchia.
Per gran tristizia abbraccio le ginocchia,
e 'l mento su per esse se trastulla.
Cotal me son qual m' era nella culla;
non[n] ho più piè, nè più mani, nè occhia:
gracido e muso, come una ranocchia,
scalza ed ignuda, co' la carne brulla.
A me non val esempio de formica:
deh odi s' i' son pigra, che gustando
el menar della bocca m' è fatica.
Insomma, quando vengo imaginando,
dico tra' miei pensieri tristi e 'nfermi:
«I' nacqui al mondo sol per darm' ai vermi».
E io sono l'Accidia, così inutile
da esser spregevole agli occhi di chiunque mi guardi.
Per via della mia gran tristezza, le braccia tengo strette alle ginocchia e poggio il mento su di esse, come per gioco.
Sono oggi come ero già nella culla; non ho più (non mi occorrono) piedi, né mani, né occhi: gracido e indugio come una rana, discinta e scalza, con la carne smunta.
Non mi giova neppure l'esempio della formica: senti quanto son pigra, che mangiando mi pesa persino il masticare.
Insomma, quando rifletto davvero, mi dico, tra pensieri tristi e malati: «Sono venuta al mondo soltanto per esser data ai vermi».
Il sonetto sull'Accidia si presenta come l'ultimo anello di una catena di dannazione, ma in un tono tutto diverso: non c'è furore, né idolatria, né seduzione; c'è solo svuotamento, abbandono, rifiuto della vita stessa. È un sonetto devastante proprio perché non urla, ma geme.
L'accidia (dal latino acedia) è l'indifferenza morale, la rinuncia alla vita spirituale, il torpore dell'anima. Fazio la descrive come una forza dissolvente, che priva l'essere umano di ogni energia interiore. L'accidioso è inoperoso, apatico, scollegato da Dio, dalla società e perfino da se stesso.
Fin dal primo verso:
"Et io accidia so', tanto da nulla"
la voce dell'Accidia è senza forza, senza scopo, senza volontà. È una dichiarazione di inutilità ontologica, e già questo la distingue: mentre gli altri vizi parlano della loro forza o potenza distruttiva, l'Accidia parla della propria assenza.
Chi la guarda ("qualunque m'adocchia") diventa egli stesso "gramo": la sua sola presenza contagia la mestizia.
La postura descritta nella prima quartina è iconografica: ginocchia abbracciate, mento posato sopra – è la figura della melancholia medievale, dell'accasciamento dell'anima, del corpo che si chiude su se stesso. La rima con "trastulla" accentua il tono infantile e regressivo: il gesto non è riflessione, ma rintanamento senza dignità.
🔍 Note testuali
– Tanto da nulla: espressione fortemente auto-denigratoria, che unisce "tanto" (intensivo) a "da nulla" (senza valore, inutile). L'uso è ironico e amaro: l'Accidia non ha alcuna consistenza o funzione.
– Grama: in senso arcaico: miserabile, indegna, disgraziata (dal longobardo grāma, "triste, dannata"). Qui la parola si riflette sull'effetto che la sua presenza genera in chi la guarda.
– M'adocchia: forma arcaica per mi guarda, mi osserva. Dal latino adoculare, "fissare con gli occhi". In questo contesto, suggerisce uno sguardo casuale ma carico di pietà o disgusto.
La seconda quartina è straordinariamente concreta:
"Cotal me son qual m'era nella culla".
"Sono tale e quale a com'ero nella culla": espressione di regressione, come a dire che l'Accidia non ha mai cominciato a vivere attivamente, è rimasta in potenza inerte fin dalla nascita.
"non ho più piè, né più mani, né occhia: / gracido e muso, come una ranocchia".
È l'animalizzazione dell'umano, e non in senso mostruoso, ma ridicolo, molle, umido, deformato. La ranocchia è simbolo di passività, bruttezza, bassezza, e insieme richiamo iconico alla palude, alla stasi. "Carne brulla" è un colpo finale: carne senza grazia, senza luce, senza vita.
La prima terzina tocca un punto alto della simbologia morale:
"A me non val esempio de formica".
È un riferimento diretto al Libro dei Proverbi (6,6-11): la formica come modello di operosità, previdenza, zelo. L'Accidia, invece, non si scuote nemmeno per mangiare. Il verso
"el menar della bocca m'è fatica"
è memorabile: descrive la pigrizia assoluta, che investe persino l'istinto di sopravvivenza. Non c'è negligenza: c'è paralisi. Il menar della bocca è forma ironico-realistica per il masticare, resa qui comicamente tragica.
Il finale è abissale.
"quando vengo imaginando"
cioè: quando penso davvero, quando mi metto a riflettere, quando entro in meditazione interiore,
"dico tra' miei pensieri tristi e 'nfermi:"
tra "pensieri malati", "debilitati"; pensieri corrotti, dominati da passività e morte, mi dico:
«I' nacqui al mondo sol per darm' ai vermi»".
«Sono venuta al mondo soltanto per esser data ai vermi»: metafora di resa completa alla morte, annullamento dell'esistenza. È il punto più basso della sequenza di vizi: l'autodistruzione senza rimorso, la rinuncia all'ordine provvidenziale.
Qui l'autore tocca un vertice di nichilismo premoderno. L'Accidia si rivela quale negazione della Provvidenza, della redenzione, della vita stessa. È la rassegnazione assoluta alla decomposizione.
📌 Questo sonetto è straordinariamente ricco di lessico basso e realistico, ma raffinatamente costruito. L'autore adotta un registro volutamente dimesso per rappresentare il vuoto dell'Accidia: tutto si sbriciola in pigrizia, bruttezza, stagnazione. Eppure, ogni parola è precisa e carica di eco morale.
È l'unico vizio, questo, in tutto il ciclo di Fazio degli Uberti, che non si compiace di sé, né si proclama potente: è l'unico che si annienta da solo, che sussurra la propria disperazione, che non chiede più nulla.
E, proprio per tale ragione, fa forse più paura degli altri.
* * *
Come già detto, il ciclo dei Peccati mortali di Fazio degli Uberti si inserisce pienamente nella vasta tradizione medievale della trattatistica e della poesia morale, ma vi si distingue per almeno tre tratti originali e profondi: la struttura enunciativa, la strategia di rappresentazione e la postura teologica.
Anzitutto, il tratto più marcato è l'autopersonificazione: come visto, in ciascun sonetto è il vizio stesso a parlare, in prima persona, con l'anafora ossessiva di "Io son…". Non si tratta dunque di una narrazione sul vizio, ma di un monologo del vizio, che si autodefinisce, si racconta e si autoaccusa. Questa scelta retorica e drammaturgica, rara nei testi coevi, è ciò che più avvicina Fazio alla tradizione teatrale e visionaria, più che a quella didascalica.
In secondo luogo, il tono del ciclo è radicalmente non predicatorio. Mentre buona parte della letteratura morale e penitenziale del Due-Trecento – da Jacopone a Bonvesin, dai trattatisti anonimi ai manuali clericali – si costruisce in funzione esortativa o edificante, Fazio non propone una via di salvezza, non interroga il lettore, e non si atteggia a maestro. Al contrario, presenta il vizio come figura autonoma, tragica, disperata o compiaciuta, senza offrire alcun contraltare di virtù.
Infine, il ciclo si distingue per la sua mancanza di redenzione. A differenza del Purgatorio dantesco, dove i vizi sono stadi da attraversare per ascendere alla luce, o delle Laude di Jacopone, dove l'io penitente grida verso Dio, in Fazio nessuna figura è salvata, nessuna si pente, nessuna invoca grazia. La parola resta al vizio, fino all'ultima riga. E l'ultima parola – "darmi a' vermi" – è un congedo nudo, definitivo, senza appello.
Questa radicalità espressiva emerge con forza se confrontata con alcune delle principali opere morali del tempo:
Autore |
Opera |
Modalità |
Confronto con Fazio |
---|---|---|---|
Dante Alighieri |
Purgatorio,
cc. X–XXVII |
Didattica narrativa
ed escatologica |
I vizi sono purgati e superati;
Fazio li
mostra in vita e dominanti
|
Jacopone da Todi |
Laude spirituali
|
Confessione personale
e invocazione |
Il peccato è detto dal penitente;
in Fazio, parla il vizio stesso
|
Federico Frezzi |
Il Quadriregio
|
Allegoria onirica
e monarchica |
I vizi sono re di regni morali;
Fazio è più asciutto e drammatico
|
Bonvesin de la Riva |
Libro delle
tre scritture |
Visione mistica
e allegorico-didattica |
Bonvesin è più ascetico
e simbolico;
Fazio è più incarnato
e teatrale
|
Bono Giamboni |
Libro de' vizî
e delle virtudi |
Trattatello morale binario e sistematico
|
Giamboni è catecheta scolastico; Fazio è poeta tragico
|
Brunetto Latini |
Tesoretto, Trésor
|
Dialogo enciclopedico
e pedagogico |
Manca il tono confessionale
e personificato tipico di Fazio |
La comparazione mostra come Fazio, pur erede delle grandi istanze educative del Duecento e Trecento, ne rappresenti una deviazione poetica e morale: non insegna, ma mette in scena; non guida, ma lascia parlare. Il vizio, in Fazio, non è più concetto o categoria, ma voce incarnata, persona, corpo che sente, mente che ragiona – e talvolta si compiace della propria perdizione.
È questo che fa del suo ciclo un piccolo capolavoro gotico della poesia allegorica italiana: un teatro dell'anima senza morale finale, un dramma senza Dio, dove ogni peccato parla da sé e di sé, lasciando al lettore solo la scelta se ascoltare o voltarsi altrove.
Nel tempo in cui i predicatori offrivano il perdono e i poeti cercavano la luce, Fazio scelse di dare la parola all'ombra. E a distanza di secoli, quella voce – ancora oggi – non si può ignorare.
[ddf, iv-2025]