Una canzone d'amore
nel crepuscolo del Rinascimento
el cuore vibrante del Cinquecento italiano, tra le quinte profumate di cipria e le maschere accese della Commedia dell'Arte, visse e brillò per un tempo breve ma intensissimo una donna dal talento fulgido e dallo spirito impavido: Vincenza Armani (1530–1569). Attrice celeberrima e "comica" – nel senso che allora si dava a coloro che recitavano – fu definita dai contemporanei "la prima donna del teatro italiano", capace di incantare le folle nei panni di Clori o Lidia, tanto da meritarsi paragoni con le muse stesse. Nata a Venezia nei primi decenni del secolo, morì giovanissima, lasciando un vuoto commosso nel mondo teatrale e culturale dell'epoca. ✦
A raccogliere la sua eredità e celebrarne la memoria fu Adriano Valerini, noto attore e poeta, sodale d'arte e amato da lei, che nel 1570 le dedicò un'Orazione funebre e un libretto di versi e prose: un reliquiario d'affetti, in cui trovano posto anche alcune rime che la tradizione attribuisce alla Armani stessa. Tra queste spicca una canzone d'amore delicatissima e, per certi versi, anomala. Non già un lamento elegiaco né una recita in maschera, ma una lirica che racconta – con pudore, passione e misura – l'incontro amoroso tra due amanti nel silenzio della notte. La cosa singolare è che a parlare, nei versi, è un uomo: un "io" maschile innamorato, timoroso, trepidante. Ed è proprio questo ad aver sollevato, da sempre, interrogativi sulla reale paternità del testo.
Francesco Bartoli, nel suo Notizie istoriche de' comici italiani (1752), attribuisce la canzone a Vincenza, senza palesar dubbi. Altrettanto sicuro, però in senso opposto, è Adolfo Bartoli, il grande filologo ottocentesco, che nella sua raccolta Scenari inediti della Commedia dell'Arte (1880) nota come il componimento possa aver avuto relazione con i sonetti amorosi dello stesso Valerini, che cita a confronto, e categorico conclude: "Scordiamoci che i versi sieno scritti da una donna, e confessiamo che questo quadretto è bellino! è, se non altro, una protesta contro il nauseante petrarchismo del XVI secolo. E chi sa che i petrarchisti d'allora (gente sempre noiosa e intollerante) non abbiano alzato un grido di guerra contro la comica audace! e ch'essa non se ne sia consolata con quello ch'essi meritano in ogni tempo, uno scroscio di risa!".
Luigi Rasi, invece, nel suo I comici italiani (1897), torna alla lezione originale e, "per dare un saggio dello stile poetico dell'Armani", riporta l'intera ode amorosa, che a lui "pare mirabile e strana per l'efficacia, la verità e la passione, ond'è formata".
Al di là del suo uso strumentale in funzione antipetrarchista, insomma, il dubbio rimane: è quella davvero una poesia di Vincenza Armani? O è del Valerini? O magari di entrambi, come succede in ogni amore, dove il sentire è condiviso e indistinto? Non abbiamo prove conclusive. Ma se non possiamo esser certi che la poesia sia sua, nondimeno possiam sostenere con sicurezza che non lo sia. Anche se noi non nascondiamo di propendere per la prima ipotesi, viste le doti di grande versatilità ed empatia all'attrice da tutti e sempre riconosciute.
E comunque, in questi casi, vale il principio di autorità interiore: quella che i lettori percepiscono quando un testo vibra di qualcosa che trascende la finzione. Come questa canzone, che, pur nella semplicità dell'impianto, riesce a trasmettere la tenerezza dell'attesa, la vertigine del contatto, l'ebbrezza dell'unione. Il teatro, dopotutto, non è solo maschera: è anche confessione.
Notte felice, e lieta
Prescritta al piacer mio,
Onde l'alma s'accheta
Del suo dolce desio,
Notte in che ho ferma spene
Por fine alle mie pene.
È la notte desiderata, attesa come una festa del cuore: la notte promessa all'amore, alla gioia. Il protagonista, assorto nell'immagine che in lui canta, trova pace nell'anima e spera finalmente di porre fine alla sua pena.
Pur fugge or mentre io canto
Il tempo, e già s'appressa
L'ora bramata tanto
Che oggi è a mercè promessa
Della mia lunga noja,
Principio alla mia gioja.
La notte avanza rapida; il tempo dell'attesa si consuma e l'ora tanto sospirata è ormai vicina, pronostico di ricompensa per il lungo dolore. È il momento del passaggio: la sofferenza cede il posto alla speranza.
Placido amico sonno
Deh vieni occupa i sensi
Di quei che sturbar ponno
I miei piaceri immensi,
Tal ch'io senza sospetto
Goda il mio ben perfetto.
L'amante invoca il sonno: ma non per sé. Chiede che gli altri, i curiosi, i molesti, vengano presi dal sonno, così che egli possa amare senza timori. La discrezione protegga l'incontro.
Ecco pur giunta è l'ora
Prefissa a piacer tanto,
Ond'io senza dimora
Prendo il notturno manto,
Ed al luogo m'invio
Dove alberga il cor mio.
È arrivata l'ora. Il desiderio si fa azione. Si copre col manto della notte e va, tremante e felice, verso il luogo dove dimora colei che ama. È come se il suo cuore l'avesse preceduto.
L'uscio, ch'io tocco appena,
Mi sento aprir pian piano,
Poi cheta indi mi mena
Una invisibil mano,
Io con tremante passo
Lieto guidar mi lasso.
Nel buio, il contatto è appena accennato: la porta si apre silenziosamente, è già atteso. Una mano – invisibile, lieve – lo guida. È misterioso tutto ciò: non gli è dato vedere chi lo attende, ma si lascia condurre, in trepida felicità.
Giunto al felice loco
Ch'è al mio piacer parato,
Dove risplende il foco
Ripiglio alquanto il fiato,
E poi la lingua sciolta,
Io parlo, ed ella ascolta.
È nel luogo del compimento, illuminato dal fuoco della passione e della casa. Ritrova fiato, parole, e può finalmente rivolgersi a lei. Lei lo ascolta: è un incontro fatto di presenza reciproca, di parole vere.
– Dunque è ben mio pur vero
Ch'io sia da voi degnato,
Qui dove esser già spero
Felice, anzi beato?
Son desto, o pur sogn'io?
Troppo contento è il mio.
Inizia il dialogo. Lui, incredulo e commosso, si chiede se stia davvero accadendo. Se sia degno di tanto onore, di tanto amore. Dubita persino della realtà: la felicità gli pare sogno.
Non merta la mia pena
Sofferta,
e il mio tormento,
Una di mille appena
Gioje, che per voi sento:
E mercè vostra ottegno
Quel di ch'io sono indegno.
Riconosce che la sofferenza patita non vale neppure una sola delle mille gioie che ora riceve. È la generosità dell'amata che rende possibile ciò che egli ritiene oltre ogni suo merito.
– Ella per la tua fede
E per tuo merto dice,
D'amor ti si concede
Quel che ad altri non lice,
E coglier è a te dato
Quel ch'è a ciascun vietato.
Ed ella, con grazia singolare, gli risponde: l'amore è premio alla fedeltà e alla costanza. A lui solo è concesso ciò che ad altri è negato. Il dono è totale, esclusivo, sovrano.
Dolce io l'ammiro, e insieme
Con lei ringrazio Amore,
Che in gioje alme e supreme
Bear voglia il mio core.
Poi nel piacer perduto
La miro, e resto muto.
È il momento della contemplazione: l'amore, come divinità, viene ringraziato per la felicità che offre. L'anima è colma di gioia, e lui, perduto nel piacere, resta in silenzio a guardarla.
🔎 Note testuali
✔ "Dolce io l'ammiro...": il verbo è chiave, "ammirare" non è solo guardare, ma guardare con stupore e affetto, come si fa con ciò che è bello e insieme sacro.
È un momento in cui il desiderio si fa coscienza estetica: l'amata è lì, vicina, raggiunta – e lui non può fare altro che contemplarla.
Non più ansia di possesso, ma gratitudine per la presenza. L'anima si distende nella visione di lei.
✔ "Poi nel piacer perduto, / La miro, e resto muto": dentro il piacere, assorbito da esso, immerso fino a perdersi, lì, in quel momento in cui l'identità individuale si è dissolta nell'estasi, lui guarda lei – la miro – e non può più parlare.
È il culmine della contemplazione amorosa:
l'amata è diventata un'apparizione, una visione estatica, e lui, spossessato da sé e colmo di tutto, non ha più parole. Questo "resto muto" non è incapacità: è pienezza che supera il linguaggio.
Come in certe esperienze religiose o artistiche, ciò che si prova non si può più dire, perché la parola sarebbe riduzione, impoverimento.
Dolc'ella sorridendo
Mentre mi legge in viso
L'alto desio ch'ardendo
Tien me da me diviso,
Rende all'alma il vigore
Che per dolcezza more.
Il desiderio è così intenso da farlo uscire da sé. E lei, sorridendo e comprendendo tutto, gli restituisce vita e respiro, con la sola sua presenza.
🔎 Note testuali
✔ "L'alto desio ch'ardendo / Tien me da me diviso": sono i versi più raffinati e psicologicamente intensi di tutta la canzone. Desìo qui sta per desiderio amoroso, ma non solo sensuale: è un desiderio elevato, nobile, quasi spirituale. È un sentimento che brucia (ardendo), ma non consuma con violenza: piuttosto accende, innalza, porta l'anima verso qualcosa che sta sopra di lei, come l'aspirazione a una bellezza superiore. È un ardore che trascina verso l'alto, ma al tempo stesso spossessa. L'amante è colto da un'emozione così intensa che lo innalza e lo disloca, lo fa uscire da sé, lo allontana da sé, lo fa essere altrove: in lei, nel pensiero di lei, nel desiderio di lei. Il suo desiderio è sublime, e proprio per questo lo fa tremare.
È un'esperienza di perdita dell'unità personale: non è più pienamente presente a se stesso, ma come rapito, dislocato, disperso.
Non è una semplice metafora: è un'esperienza di dislocazione interiore, una formula di estraniamento amoroso che ricorda tanto la mistica quanto certi passaggi della lirica petrarchesca.
E proprio in quel momento, lei lo guarda, sorride e comprende tutto: lo legge "in viso" – ossia lo capisce senza che lui parli –
e con questo gesto silenzioso, dolce, empatico, gli restituisce il respiro, la presenza, l'equilibrio perduto.
Non è solo l'amore ad agire: è lo sguardo di lei, il suo sorriso, la sua presenza consapevole e attiva che guarisce la frattura, che "rende all'alma il vigore / che per dolcezza more".
E con le belle braccia
Mi cinge il collo e tace,
E il cor con l'alma allaccia,
Che di desio si sface,
Ond'io di piacer pieno
Le bacio il petto, e il seno.
L'unione è ormai vicina. Non c'è parola, ma solo gesto: lei lo abbraccia e lo stringe a sé. Il piacere culmina in baci sul corpo amato, finalmente raggiunto.
🔎 Note testuali
✔ "E con le belle braccia...": abbiamo visto prima l'amante travolto dal desiderio, tanto da sentirsi estraniato, "diviso" da sé; lei lo guarda e lo comprende – "mi legge in viso" – e col solo sorriso gli restituisce se stesso.
Un atto silenzioso e tenerissimo, in cui lei accoglie e contiene il suo ardore, senza giudizio, senza parole.
È un momento di cura reciproca: lui si perde, lei lo riporta a sé.
E proprio da questa riconnessione scaturisce il prosieguo, dove il desiderio ritrova la sua strada nel corpo:
non più solo fuoco interiore che brucia e divide, ma energia incarnata che si riversa in un gesto reciproco, quieto e totale. Lei non risponde con parole, ma con un abbraccio:
E il cuore – simbolo dell'affetto – si allaccia con l'anima, che ancora trema e si "sface" per eccesso di dolcezza. Qui la Armani (o Valerini?) adopera un verbo fortissimo: sfarsi, disfarsi: l'anima cede, si scioglie, si abbandona. Non è rottura, è fusione. E allora, finalmente, l'amante può toccare: le bacia il petto e il seno, non con prepotenza, ma per colmare uno spazio che ora non fa più male. È un gesto d'amore, di abbandono condiviso: nulla di violento, tutto di desiderato.
E da sua bocca bella
Poi colgo il cibo grato.
Io muto, e tacit'ella,
Liet'ella, ed io beato,
Partiam l'alte faville
Co i baci a mille a mille.
I baci si moltiplicano, senza parole. La bocca dell'amata offre nutrimento e gioia. Il piacere si fa spirituale e corporeo insieme. Sono entrambi beati.
🔎 Note testuali
✔ "Partiam l'alte faville / Co i baci a mille a mille": Qui siamo ormai nel pieno dell'estasi amorosa, ma con una nota spirituale e quasi cosmica. La scena ha smesso di essere descrittiva per diventare visionaria: si accendono faville, si moltiplicano baci, il linguaggio sfiora l'allegoria. "Partiam" è voce verbale del verbo partire in senso antico, qui con significato di condividere, spartire, dividere tra noi. "Faville" sono scintille, immagini classiche del piacere amoroso trasformato in luce, in energia viva e intensa. "Co i baci a mille a mille": è la parte più fisica e insieme più tenera. I baci non sono più isolati, ma si moltiplicano all'infinito. Il doppio "a mille a mille" è iperbolico, certo, ma anche musicale: riproduce il ritmo incalzante e tenero del gesto ripetuto. E come non riconoscere in esso l'eco del carme catulliano a Lesbia: "Da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum..." (Dammi mille baci, poi cento, poi ancora mille, poi di nuovo cento, poi senza pausa altri mille, poi cento).
Quel, che succede poi
Amor solo il può dire
Perch'ebri ambi due noi
Nel colmo del gioire
Perdiam ne i gaudj immensi
L'alma gli spirti, e i sensi.
(Testo tratto da: F. Bartoli. Notizie istoriche)
Oltre non si può dire: il culmine è ineffabile. Solo Amore potrebbe narrarlo. I due amanti si perdono l'uno nell'altra, nell'inebriamento assoluto. È estasi: anima, spiriti, sensi svaniscono nell'unione.
Questa breve canzone, che scorre con misura e soavità, è un esempio raro di erotismo cinquecentesco temperato dalla grazia poetica. Non c'è sfrontatezza né esibizione: solo desiderio contenuto, pudore in tensione con l'ardore, e una musicalità delicata che accompagna la progressione affettiva, dal tremore iniziale all'abbandono finale.
L'impianto metrico (strofe di sei versi di varia misura, con rime spesso baciate) dona al testo una cadenza cantabile, quasi liturgica. La sintassi è semplice ma non banale; i periodi sono spesso paratattici, ma segnati da accensioni lessicali ("mercede", "faville", "cibo grato") che alimentano la narrazione sensuale.
Il testo ha qualcosa di raro, di lieve e insieme potente: non cerca di stupire, non ostenta ardimenti formali, eppure riesce a evocare un'intimità così viva e palpabile da sembrare sussurrata all'orecchio.
C'è l'attesa, la paura, la gratitudine, e poi quell'abbandono finale che non è mai volgare né costruito, ma carnale e quasi sacro, con l'eros che diventa figura del dono, del riconoscimento, della grazia.
A colpire specialmente, è il ritmo della sensualità: l'ascesa non rapida, ma lenta e composta, come se ciascun gradino dell'incontro meritasse di essere abitato, goduto, contemplato. E quella chiusa… "perdiam ne i gaudj immensi / l'alma gli spirti, e i sensi"… è da stella cadente nella notte del Rinascimento.
Se davvero questa poesia è opera di Vincenza Armani, siamo davanti a una prova di straordinaria intelligenza poetica e sensibilità femminile, capace di mettersi nei panni del maschio amato e al tempo stesso di rivelare una visione spirituale del corpo e dell'amore.
Nel fervore culturale del Rinascimento italiano, tra le corti principesche e le piazze risonanti di canti e lazzi, nacque e fiorì una delle esperienze teatrali più originali e longeve d'Europa: la Commedia dell'Arte. Un teatro vivo, fatto di corpi, di voci, di improvvisazione, che mescolava il riso e la critica sociale, il gioco e l'intelligenza, il gesto comico e l'introspezione drammatica. Ma soprattutto, un teatro che vide, per la prima volta nella storia occidentale, le donne salire stabilmente sul palcoscenico, e da quel momento in poi diventare non solo interpreti, ma anche creatrici di poesia, di parola, di personaggi.
La Commedia dell'Arte nacque nella seconda metà del Cinquecento, probabilmente a Venezia o nell'area veneta, come evoluzione della tradizione comica latina e medievale, ma anche come risposta viva alla rigidità del teatro erudito umanistico.
Col tempo, attraversò l'Europa, avendo grande fortuna in Francia (influenzando Molière), Spagna, Germania e perfino in Russia e Polonia, con compagnie italiane che si stabilirono all'estero.
Le rappresentazioni avvenivano ovunque si potesse radunare un pubblico: piazze, cortili, mercati delle città italiane; sale e giardini delle corti principesche, dove le compagnie erano invitate per festeggiamenti; teatri mobili (con scene portatili in legno); e successivamente i primi veri teatri pubblici a pagamento (come il Teatro Olimpico a Vicenza dal 1585 o il Teatro Farnese a Parma dal 1618).
👉 Il Teatro Olimpico di Vicenza, inaugurato nel 1585, è il più antico teatro stabile coperto del Rinascimento. Progettato da Andrea Palladio, fu concepito come un teatro "all'antica", ispirato ai modelli classici, ma con soluzioni innovative per l'epoca. Fu inaugurato con la rappresentazione dell'Edipo Tiranno di Sofocle il 3 marzo 1585. Il teatro, tuttora esistente, è un esempio di teatro rinascimentale e dal 1994 è patrimonio UNESCO.
👉 Il Teatro Farnese di Parma, opera di Giovanni Battista Aleotti e inaugurato nel 1618, si distingue per le sue dimensioni imponenti e per la sua architettura che richiama il teatro romano. Fu costruito per volere del duca Ranuccio I per celebrare la visita del Granduca di Toscana. La sua inaugurazione nel 1628 fu caratterizzata da una spettacolare naumachia, una rappresentazione di battaglia navale nella cavea allagata. Il teatro fu poi danneggiato durante la Seconda Guerra Mondiale e ricostruito nel dopoguerra.
Tra le compagnie più famose si ricordano:
Queste compagnie erano organizzate con disciplina: gerarchie, quote di guadagno, prove, ruoli prestabiliti. Erano imprese teatrali, ma anche famiglie in movimento.
Gli spettacoli non si basavano su copioni fissi, ma su canovacci: trame essenziali attorno a cui gli attori improvvisavano con battute, gesti, acrobazie e lazzi. Ogni attore incarnava un ruolo prescritto (Pantalone, Arlecchino, il Dottore, il Capitano...), con una propria maschera, dialetto, postura.
Si trattava di uno spettacolo totale:
Era un teatro fisico, ritmico, sensoriale. L'attore non era solo interprete: era anche musicista, acrobata, mimo, cantante, giocoliere. Un'arte polimorfa, insomma, che viveva nella relazione diretta con il pubblico, fatto di popolo e di cortigiani.
Maschere principali della Commedia dell'Arte |
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Personaggio |
Caratteristiche peculiari |
Arlecchino |
Servo furbo, agile, affamato e stralunato. Di origine bergamasca, è vestito di toppe colorate. Alterna astuzia e ingenuità. Acrobatico, clownesco, eternamente affamato. Si esprime spesso con il corpo più che con la parola. |
Pantalone |
Vecchio mercante veneziano, avaro, brontolone, autoritario e spesso ridicolizzato dai giovani o dai servi. Parla in dialetto veneto, ha andatura curva e mani protese a contare i soldi. È il padre-padrone per eccellenza. |
Il Dottore |
Sapiente bolognese, pedante e loquace. Parla un misto di latino maccheronico e dialetto. Convinto di saper tutto, viene spesso smentito dai fatti. Figura comica per eccesso di verbosità e cecità pratica. |
Il Capitano |
Spaccone, fanfarone, di solito straniero (spagnolo). Si vanta di imprese mai compiute, ma fugge alla prima minaccia. Maschera della codardia travestita da eroismo. Spesso serve a prendere in giro i militari o gli stranieri. |
Colombina |
Servetta intelligente, arguta e sensuale. Spesso confidente dell'Innamorata, è capace di risolvere le situazioni con furbizia e ironia. Non porta maschera, e rappresenta la donna libera e consapevole. |
Gli Innamorati |
Giovani e belli, parlano un linguaggio elevato e poetico. Non portano maschera. Sono spesso ingenui, impacciati, vittime dei propri sentimenti. La loro goffaggine è risolta dai servitori. |
E tra queste maschere, in questo tourbillon in larga parte improvvisato, cominciarono a farsi strada personaggi nuovi, liberi, affascinanti: le donne (Francesco Bartoli ne data al 1550 il primo esordio in assoluto sulle scene).
A guidare il loro ingresso rivoluzionario fu Vincenza Armani (1530–1569), che gli spettatori ricordavano nei panni di Clori o Lidia, nomi che nel teatro e nella poesia designavano pastorelle, fanciulle innamorate, figure liriche e insieme vive. La Armani fu non solo interprete ma, secondo le fonti, anche autrice di versi. La sua presenza scenica incantava: gli spettatori pendevano dalle sue labbra, ma anche dagli occhi, dai gesti, dal ritmo che sapeva dare alla parola.
"Poetessa, suonatrice, cantante, scultrice, comica: Vincenza Armani era nata a Venezia da famiglia Trentina. Per essa, quando giungeva in qualche città, «si sparava l'artiglieria», le movevano incontro i notabili del luogo, si facevano in suo onore giostre e tornei. Recitava essa in tre stili differenti, cioè nel Comico, nel Pastorale e nel Tragico, osservando il decoro di ciascuno tanto drittamente, che l'Accademia degli Intronati di Siena disse più volte che questa donna riusciva meglio assai parlando all'improvviso, che i più consumati autori scrivendo pensatamente". (A. Bartoli)
Sui palcoscenici di tutt'Italia:
"Ha recitato in Roma, in Fiorenza, in Siena, in Lucca, in Milano, in Brescia, in Verona, in Vicenza, in Padova, in Venezia, in Ferrara, in Mantova, in Parma, in Piacenza, in Pavia, in Cremona e in altre città, nelle quali tutte è rimaso il nome delle sue virtù impresso nelle umane menti, e i dolci accenti della sua voce risuonano ancora nell'orecchie di ciascuno". (A. Valerini)
Comica di gran vaglia:
"Della dotta Vicenza non parlo, che imitando la facondia ciceroniana, ha posto l'arte comica in concorrenza con l'oratoria, e parte colla beltà mirabile, parte con la grazia indicibile, ha eretto uno amplissimo trionfo di sé stessa al mondo spettatore, facendosi divulgare per la più eccellente Comediante di nostra etade". (T. Garzoni)
E circa la sua proverbiale bellezza:
"Era di corpo bellissima, di statura piuttosto grande che no [...]. Aveva del virile nel volto e nei portamenti, onde se talora in abito di giovanetto si mostrava in scena, non era alcuno che donna l'avesse giudicata. Aveva i capei lunghi di finissim'oro; alcuni in treccie avvolti, alcuni negletti ad arte givan vagando nei margini della fronte, e benché fosser sciolti, legavan però più fortemente i cuori. La fronte come alabastro lucida e tersa sembrava quella parte di puro argento che nella luna si vede, quando la circonferenza non ha ben compita ancora [...]". (A. Valerini)
Però, prima di tutto:"Ma quella cosa da che più l'alme eran percosse, e maggior virtute aveva in noi, furono le rilucenti perle uguali, che qualora dal grazioso riso erano scoperte abbagliavano co' i suoi raggi la vista dei riguardanti". (A. Valerini)
Dopo la sua morte, avvenuta giovane, nel settembre 1569, il collega e compagno Adriano Valerini le dedicò un'Orazione funebre:
"Tu Mondo, come più mondo potrai chiamarti? Che se il tuo nome derivi dall'esser di belle cose adorno, io non veggo come più per tale possi esser nomato, essendosi da te ogni ornamento partito; dunque non più Mondo, ma oscuro, e tenebroso abisso devi chiamarti [...]". (A. Valerini)
e una raccolta di rime, tra cui è conservata la canzone d'amore che lui le attribuisce, dove a parlare è un "io" maschile:
"L'Armani si chiamava Lidia nelle commedie e Clori nelle pastorali, e sotto questi nomi fu ancora celebrata in versi. Il Valerini le dedicò vari sonetti, e vari glie ne dedicarono Giacomo Mocenigo, l'Accademia degl'Intronati, Antonio Sottile, Niccolò Pellegrino, Fulvio Urbino, Giovanni Saravalle, Nicola Cartari, Giovan Battista Gozzi, Luzio Burchiella, comico geloso (V.), Francesco Mondella, e l'Accademia degli Ortolani; ed ebbe stanze da Giovanni Acciajoli e da altri: rime tutte che seguono l'orazione del Valerini; alle quali tengon dietro le rime dell'Armani stessa al Duca di Mantova, a Lucrezia D'Este, alla Città di Vicenza, al Duca di Ferrara, e un'ode tutta sensuale in memoria certo de’ suoi amori. A parte le iperboli del Valerini, la Vincenza Armani doveva essere davvero un essere eccezionale". (L. Rasi)
Ma Vincenza non fu la sola. È forse più celebre Isabella Andreini (1562–1604), padovana, detta "L'Accesa", astro luminoso della compagnia dei Gelosi, attrice adorata in Italia e in Francia, anche autrice di poesie, lettere, dialoghi, e protagonista di corrispondenze illustri. Donna colta, spiritosa, acuta, fu ammirata dal Tasso e pianta dal Marino in versi struggenti ("Piangete orbi teatri; in van s'attende / Più la vostra tra voi bella Sirena..."). Sapeva interpretare ruoli maschili e femminili, scriveva in latino, improvvisava in versi, e difendeva le donne dagli attacchi dei moralisti.
"Essa destò l'ammirazione de' suoi contemporanei, tanto come attrice che come letterata. A Roma sedè ad un banchetto, datole dal cardinale Aldobrandini, accanto al Tasso e ad altri illustri, e fu «coronata d'alloro in simulacro», fra il Tasso stesso e il Petrarca. La celebrarono i poeti più famosi del suo tempo; fece parte di Accademie di dotti; ebbe onori dal re di Francia; la sua partenza da Parigi destò vivi rammarichi; alla sua morte, accaduta nel 1604, ebbe pubbliche e insolite dimostrazioni di riverenza, ed ebbe poi medaglie di bronzo, d'argento e d'oro, e fu celebrata dalla fama". (A. Bartoli)
Lucrezia di Siena fu forse la prima attrice femminile in Europa, o comunque tra le primissime ad essere menzionata per aver firmato un contratto di recitazione, nel 1564, per una compagnia della Commedia dell'Arte di Roma.
Barbara Flaminia (1540–1586), coeva della Armani e sua grande rivale, attiva tra Italia, Germania e Spagna, fu attrice carismatica, ma anche celebrata poetessa.
Angelica Alberghini (1578–1601), compagna di vita di Drusiano Martinelli, attore e titolare della omonima e notissima compagnia teatrale, recitò soprattutto in Spagna, Francia e Inghilterra, e fu probabilmente, nel 1587, la prima attrice a calcare i palcoscenici di Londra (e, forse, fu la prima a farlo anche in Spagna).
Vittoria Piissimi, celebre comica ferrarese, conosciuta come "La divina", fu poliedrica attrice, cantante, ballerina, musicista e regista teatrale, fra le più versatili e ammirate dell'epoca, prima donna della celebre Commedia dell'Arte dei Gelosi di Flaminio Scala, probabilmente la prima compagnia teatrale italiana ad esibirsi in una tournée all'estero, nel 1561, a Parigi.
Diana Ponti, attrice e poetessa, figlia dell'attore Adriano Valerini, fu capocomico della compagnia I Desiosi, esibendosi tra l'altro, nel 1600, al matrimonio tra Enrico IV e Maria de' Medici.
Altre "comiche" dell'epoca si distinsero per bravura, versatilità, intelligenza. Alcune di loro scrissero versi encomiastici, altre madrigali o lettere pubbliche, altre ancora sono ricordate per i ruoli interpretati in maschera o in abiti maschili, con una libertà scenica che anticipa i giochi d'identità del teatro moderno.
Queste donne non furono solo interpreti, ma autrici del proprio destino scenico. Alcune, come la Andreini, pubblicarono raccolte di rime; altre, come la Armani, ci hanno lasciato indizi più sfuggenti ma non meno eloquenti. Tutte, comunque, furono personaggi ammirati, capaci di suscitare la devozione del pubblico colto e popolare, e l'interesse degli intellettuali del tempo.
In un mondo che ancora negava alle donne l'accesso all'università, che le voleva muse ma non autrici, queste attrici furono poetesse in scena, intellettuali in movimento, corpi pensanti che trasformarono il palcoscenico in un luogo di parola, d'ascolto, di conquista. La Commedia dell'Arte fu anche questo: il primo vero teatro delle donne, dove Clori e Lidia non erano più figure da contemplare, ma voci da ascoltare.
E ancora oggi, il loro sguardo ci raggiunge da dietro la maschera, vivo come una battuta improvvisa, lucente come una favilla nella notte di scena.
Il teatro italiano era:
La Commedia dell'Arte porta invece il corpo e la voce viva sulla scena, l'elemento popolare e il gesto improvvisato. È teatro che vive solo se agito, non se solo scritto.
Nel Seicento e soprattutto nel Settecento, la Commedia dell'Arte conosce una lenta trasformazione:
Il grande Carlo Goldoni (1707–1793) ne è il punto di svolta: egli riforma il teatro comico, eliminando la maschera e l'improvvisazione, e proponendo commedie scritte in lingua e in prosa, con personaggi realistici. Con la sua riforma, la parola prende il posto del gesto, l'accento si sposta dal corpo al detto:
In altre parole, la spettacolarità si ritira sotto la superficie, si fa più intellettuale, più borghese, più domestica. Il palcoscenico goldoniano si chiude: non è più la piazza, ma il salotto, la cucina, la bottega. Il pubblico non ride perché Arlecchino cade da una scala, ma perché fra un padre e una figlia si cela un conflitto di aspettative. È un riso più sottile, meno fragoroso, ma anche più riflessivo. È la fine dell'Arlecchino zingaresco e l'inizio dell'Arlecchino "uomo moderno".
📌 La Commedia dell'Arte fu un laboratorio di libertà: nel linguaggio, nei corpi, nei ruoli sociali. Un teatro vivo, collettivo, senza sceneggiature, senza retorica, ma ricco di verità umane. Fu un grande spazio di emancipazione per gli attori e soprattutto per le attrici, che nel Cinquecento trovarono sulla scena un palcoscenico per dire se stesse e raccontare il mondo.